La scelta dell’argomento di tesi non è mai facile: deve trattarsi chiaramente di un tema ben noto, possibilmente di interesse e coinvolgente. Chiarite queste tre caratteristiche, il ricadere della scelta su Michelangelo è stato automatico. Non che la mia facoltà prevedesse studio di storia dell’arte, ma la mia passione storica per l’arte mi ha convinta ad accantonare il timore di scegliere un gigante, un vero “mostro sacro”, come argomento di tesi. La storia dell’arte mi ha sempre appassionata: ho studiato i primi accenni alle scuole medie, mentre al liceo l’ho approfondita; posso dire con serenità che si è trattato di un vero e proprio colpo di fulmine, un incontro folgorante che mi ha arricchita e mi ha donato moltissime basi e strumenti anche per affrontare altre materie di studio.
Qualche giorno fa, ho scoperto qualcosa di agghiacciante: sulla base della Riforma Gelmini per la scuola, la storia dell’arte verrà eliminata dalle materie di programma. Questa materia sembra non essere importante per la crescita degli studenti, sono ovviamente ben altre le priorità; quindi, si può tranquillamente passarla sotto silenzio. Nessuno ne sentirà la mancanza.
Ricordo ancora come se fosse ieri la prima lezione di storia dell’arte al liceo. Il mio professore venne a prendere la classe, riunita in palestra per lo smistamento delle quarte ginnasio, per condurci in classe; spiegò brevemente di cosa si sarebbe occupato, per poi iniziare a parlare delle grotte di Lascaux e delle immagini rupestri che vi erano state rinvenute. Quando spiegava, il mio professore non apriva il libro, non teneva neppure il conto di dove fossimo arrivati: si trattava di dettagli ininfluenti, lui si limitava ad iniziare a camminare in giro per la classe, raccontando. Ogni tanto (giusto per onor di cronaca), verificava se il filo del suo discorso corrispondesse al manuale, per il resto riversava nelle nostre menti non solo conoscenze puramente tecniche di storia dell’arte, ma anche di storia, di letteratura, di filosofia, di greco e latino; per quanto ci riguardava, prendevamo appunti in modo velocissimo, al quinto anno una dattilografa non sarebbe riuscita a tenerci dietro. Il rapporto di cooperazione con il professore prevedeva, infatti, che la marea di conoscenze che lui ci regalava tornasse al mittente durante le interrogazioni: si trattava, in altri termini, di un contratto do ut des, “do affinché tu dia”. Anche quest’espressione mi è stata insegnata durante le lezioni di storia dell’arte.
Le interrogazioni erano un momento che oscillava sempre tra il panico profondo e l’estasi mistica: il primo elemento apriva l’interrogazione, il secondo veniva raggiunto, se tutto aveva funzionato a dovere, verso la fine dell’interrogazione, quando ti rendevi conto di essere andato bene e di aver creato un arcobaleno di temi differenti, di cui la storia dell’arte era comune denominatore.
Tramite queste lezioni, ho potuto approfondire molte conoscenze di cultura generale, ho potuto studiare tre o quattro materie riassunte in una sola, infine ho avuto l’opportunità unica di rivolgermi alla mia città con uno sguardo rinnovato. Non capita spesso di riuscire a guardare qualcosa o qualcuno per due volte con due sguardi diversi: eppure, studiare la storia dell’arte ha rinfocolato in me l’ammirazione sbalordita e l’amore per Roma e, più in generale, per l’Italia, un Paese che è nato con l’arte e che, probabilmente, non riuscirebbe a sopravvivere senza.
Ultima settimana dell’ultimo anno di liceo. Il professore di storia dell’arte ci offre l’opportunità di un’ulteriore interrogazione, per alzare il voto finale o semplicemente per un’ultima “chiacchierata artistica”. Alla fine dell’ultimo anno, le interrogazioni non somigliavano neppure più a verifiche della preparazione, quanto a discussioni di alto livello su arte, filosofia, letteratura. Mi ricordo che nel programma, per ragioni di tempo, non eravamo riusciti a trattare Michelangelo; perciò pensai di associare il tema del Tondo Doni di Michelangelo e le raffigurazioni dei deschi da parto (vassoi, sotto forma di vere opere d’arte, che venivano donati alle partorienti dopo la nascita del bambino e su cui, almeno idealmente, si sarebbe dovuto compiere il primo pasto della neo-mamma) con la Venere di Botticelli ed il tema del matrimonio. Le due opere erano unite idealmente e filosoficamente dal legame del dono per un avvenimento importante, matrimonio o nascita, ed offrivano lo spunto del confronto tra raffigurazione quattrocentesca ed innovazione. La finalità ultima, tuttavia, era per me poter parlare di Michelangelo con il mio professore, un onore che rischiava di svanire, a causa del lunghissimo programma da trattare. Da un certo punto di vista, mi sembra quasi riduttivo parlare di “interrogazione”, perché in effetti non fui interrogata: iniziai semplicemente a parlare, senza fermarmi, inserendo quanto avevo studiato autonomamente e quanto avevo assimilato negli anni; guardavo l’immagine del Tondo Doni sul mio libro praticamente senza vederla, perché mi sembrava di avere il dipinto materialmente di fronte a me, che quasi lo potessi toccare. Poi l’interrogazione finì, arrivò la maturità e con essa l’entrata all’università. Devo moltissimo al mio professore di storia dell’arte del liceo, un uomo estremamente preparato, che mi ha arricchita e che, tramite la sua materia, mi ha permesso di affrontare altre materie di studio senza spaventarmi e con occhio critico allenato.
Le materie studiate all’università mi hanno appassionata, divertita, coinvolta: ma il legame con la storia dell’arte è rimasto accovacciato in me, mai del tutto silente, anzi, talvolta anche abbastanza chiassoso. L’opportunità di trattare Michelangelo nella tesi di laurea triennale mi ha dato la carica per affrontare tutte le difficoltà che la tesi ha comportato e che ho superato; mi sono trovata a trattare di arte, di filosofia, di storia… non avrei forse potuto scegliere un argomento più semplice? Perché complicarsi così la vita?
In questo nostro momento storico, in cui il massimo valore è rivestito dall’apparire e dal successo personale, si sta purtroppo perdendo la capacità di riconoscere la passione e di stimolarla, al punto da ignorare in suo nome le inevitabili difficoltà che si incontrano sul cammino. Incontrare una passione, nella vita, è un’esperienza di crescita davvero unica, non solo a livello di capacità acquisite, ma anche nella nostra vita quotidiana: educare all’arte, tornando a noi, significa educare la mente alla bellezza, a saperla riconoscere e scovare anche dove altri non saprebbero vederla.
Eliminare la storia dell’arte dalle discipline di insegnamento significa privare i ragazzi della capacità di stupirsi e di sorridere incantati di fronte alla bellezza, di donare, come si diceva prima, una seconda opportunità alle cose che incontrano ogni giorno, una realtà che, per chi come me vive a Roma, è quanto mai attuale. Privare i giovani della possibilità di godere dalla vera bellezza (e non di ciò che sventola inopinatamente in televisione), di capirla, di osservare un Paese come l’Italia con gli occhi dell’innamorato e’ un atto profondamente egoistico e scorretto; a livello puramente disciplinare, una materia come la storia dell’arte insegna un metodo di studio rigoroso senza per questo imporlo a tutti i costi, spazia per tutte le materie umanistiche e le integra con nuove argomentazioni. A livello di arricchimento personale, permette di osservare a piacimento nella storia, nelle più grandi menti mai esistite e persino in noi stessi.
A questo punto mi sorge spontanea una domanda: in un momento di crisi come quello che il nostro Paese, patria indiscussa della storia dell’arte, sta vivendo, è davvero una scelta intelligente eliminare la storia dell’arte dalle materie di insegnamento? Sarei davvero curiosa di capire cosa i nostri legislatori pensino di far passare ai ragazzi tramite questa scelta: probabilmente temono che i nostri livelli di competizione a livello internazionale, già non eccelsi, possano ulteriormente calare, concentrandosi su una materia così inutile. Non si rendono evidentemente conto di star operando una scelta indiscriminata sullo sviluppo dei ragazzi e del nostro Paese: se nessuno saprà più valutare ed amare l’arte di cui l’Italia è portatrice, cosa rimarrà del nostro Paese? Mucchi di sassi e macerie? Pezzi di edifici pericolanti e di nessun valore? Questo potrebbe essere il desolante panorama che si andrebbe ad osservare: sassi rovinati, vecchie accozzaglie di mattoni gettate a casaccio. Questo potrebbe essere ciò che i nostri discendenti vedranno, questo il panorama della loro mente. Vuoto e caos primigenio.
Leggendo degli ultimi sviluppi di questa Riforma dell’istruzione, mi è successo qualcosa che mi capita abbastanza di rado: mi sono infuriata. Per me, per la scuola, per l’Italia. Disconoscere il valore della storia dell’arte in un Paese come il nostro equivale a disconoscere il NOSTRO valore, ciò che da sempre costituisce il nostro vanto ed in cui, volenti o nolenti, ci identifichiamo. Smettendo di apprezzare ciò che ci rende unici al mondo e di educare le giovani generazioni a riconoscerlo, rischiamo non solo di aggravare una crisi già stringente, ma anche, in un futuro forse neppure troppo distante, di guardarci allo specchio e non riconoscerci più.